inThoughts#3 – F. M. Gri

Mai come in questi ultimi mesi l’umanità non respirava un clima di divisione e diffidenza, come da tanto tempo non succedeva. I ricordi inevitabilmente vanno lì, in quel periodo storico folle che i nostri nonni ci hanno raccontato, storie che nel nostro immaginario apparivano irripetibili. E invece non è così, dobbiamo fare attenzione a non cascarci nuovamente. I recinti ci sono sempre, siano essi reali o mentali.

Tempo fa pubblicai un album chiamato Ghost Dreamers Town. L’album era la colonna sonora di un racconto che avevo scritto, una storia che parlava appunto di divisione…. Per chi avrà tempo e voglia di leggere questa è la prima parte.


Tempo fa un vecchio signore raccontò a un suo amico del satellite Titano descrivendo la pioggia di quel luogo lontano come una delle più belle meraviglie che la natura potesse regalare. Grazie alla sua atmosfera, simile alla nostra, ma più densa perché fatta di metano, disse, le gocce cadono a terra, lentamente, perfettamente sferiche come perle liquide. Pioggia di mercurio, pensai.
Senza interessarmi del fatto che quel signore avesse potuto inventare ogni singola parola della storia rimasi talmente affascinato e incantato da quella fotografia mentale che ancora oggi sogno di vivere prima o poi quello spettacolo travolgente….anche adesso che sono rimasto solo e, forse, l’ultimo sognatore di questo mondo.
Le giornate ormai scorrono monotone e il senso del tempo non esiste più da quando anche l’orologio del campanile si è fermato. Tutto da quel giorno é immobile. Il calendario in cucina é fermo a quella data, paralizzato come me, nuvola senza vento che non vuole dimenticare. 18 settembre 2016. L’inizio di tutto. E la fine di tutto.
Raccontare una storia nell’indifferenza mi conforta perché se ci fosse qualcuno ad ascoltare mi prenderebbe sicuramente per pazzo. Ormai la gente mi fa paura, preferisco il silenzio e la solitudine. Eppure una volta non era così…

Le persone erano in continuo movimento, un flusso ritmico di gente che usciva ed entrava da edifici di ogni dimensione ed età; la metropolitana spezzava in diagonale le armonie delle vecchie strade; rivoli di fumo uscivano dai camini delle timide abitazioni. File di case identiche descrivevano per centinaia di metri gli stessi gesti, come se l’ultima volesse in qualche modo imparare dalla prima, creando un gioco di rassicurante dilatazione. E in questo quadro dalle tinte seppia noi eravamo i passeggeri urbani, elementi unici che sapevano far risuonare la città in tutta la sua bellezza.
Un pianoforte senza corde é muto e noi eravamo quelle corde.
La Città dei Sognatori, così la chiamavano.Durante il giorno il paese si trasformava in una metropoli. Le persone arrivavano da ogni luogo: commercianti, turisti, curiosi, chiunque aveva un motivo per passare da noi almeno un giorno.

K era conosciuta per essere la città dell’arte, abitata quasi esclusivamente da artisti che con le loro creazioni regalavano colori e sogni a un mondo che ormai ne era orfano.
Noi i forestieri li chiamavamo automi, invece. Persone piatte, dallo sguardo spento arrivavano ogni giorno per trasformare le nostre opere e le nostre idee in business. Molti di loro si riconoscevano subito perché avevano una gelida corazza di indifferenza che li privava di ogni minima emozione; altri, invece, si mescolavano tra la folla senza molto successo. 
Connessioni…
Ricorderò sempre quel povero anziano, malato, caduto a terra, impaurito da rumorosi petardi. Nei suoi occhi il dolore riaffiorato da chissà quale ricordo lontano e l’indifferenza totale dei passanti, impassibili, vittime della loro quotidiana ricerca di fama, soldi e successo. Automi senz’anima felici del loro inconsapevole non essere, stagnanti in un coma cronico fatto di ego e falsità plasmato in ogni gesto come roccia granitica.
Di questa divisione io stavo nel mezzo, non ero né un artista né un automa, solo un sognatore. Non mi sono mai considerato speciale ma solamente fortunato per essere cresciuto in una città così particolare.

Mio padre invece era stato un famoso artigiano. Per tutta la vita costruì violoncelli, poi negli ultimi anni della sua esistenza iniziò a scolpire sul legno gli artisti più importanti di K. Diceva sempre che non c’era molta differenza tra costruire un violoncello e fare ritratti sul legno, la cosa fondamentale era calibrarne l’anima, diceva. Così fin da piccolo imparai ad affinare la sensibilità, a leggere tra le righe imparando non solo ad ascoltare ma a sentire.
Quando morì avevo 25 anni e una vita ancora da scolpire. Non sapevo ancora che un giorno, anche se a modo mio, avrei proseguito la strada che aveva iniziato.
Lavoravo per un piccolo giornale fuori città. Quando mi assunsero cercavano una persona che si dedicasse esclusivamente alla città di K, alle sue storie. Chi meglio di un abitante del luogo poteva ricoprire quel ruolo? Me la cavavo bene con la scrittura ma non avevo abbastanza talento per diventare uno scrittore. Mi mancava la pazzia visiva per poter creare personaggi, paesi e storie; non ne avevo le capacità e anche se per anni era stato motivo di frustrazione imparai col tempo a farmene una ragione. Penso che ogni persona abbia bisogno di un ruolo in questo mondo, anche pochi minuti di soddisfazione per dare senso alla propria esistenza; il tempo necessario per sentirsi utile e riemergere dalle innumerevoli ingiustizie che ci sotterrano, strati e strati di polvere che ci ricoprono cancellando la nostra essenza. Avrei potuto farla finita tanto tempo fa, ma se l’avessi fatto non avrei mai trovato il mio vero scopo.
Cammino lungo la spiaggia ascoltando il silenzio fondersi con la mia ombra disegnata sulla sabbia e ripenso a quel giorno. Ricordo nella metropolitana il riflesso del mio viso compiaciuto, soddisfatto per la giornata trascorsa. Avevo presentato un articolo che il capo aveva deciso di pubblicare; non ricordo nemmeno più di cosa parlasse. Se penso ora a quella stupida soddisfazione rido e un po’ mi vergogno capendo solamente adesso quali fossero realmente le mie priorità..

Ricordo i miei passi costanti per arrivare a K, il marciapiede pieno di artistiche figure e poi il silenzio. Un assordante silenzio. K era la stessa, identica nelle sue sfumature ma non aveva più suono. Ogni singolo abitante era sparito.
Non realizzai subito, la mattina seguente mi fu chiara la situazione, ma quella sera intuii una situazione talmente inverosimile da non dar retta alle mie sensazioni.
I miei occhi si aprirono e quel rumore assordante iniziò a penetrare le mie orecchie. Se per ogni cosa esiste una frequenza che può distruggerla, sicuramente quel silenzio avrebbe prima o poi distrutto la mia anima.
Uscii di casa e il nulla mi avvolse. Un deserto blu dalle tinte jazz creava un velo distorto come se Munch stesse dipingendo quella mattina di K. Malinconia. La mia città era diventata la città dei sognatori fantasma.
Con passi incerti cercavo conforto in ogni direzione ma quello che potevo vedere erano solamente porte chiuse, case in letargo e macchine senza vita. Ogni tanto qualche vecchia foglia danzava col vento, giocando in quell’infinita desolazione quasi a deridermi. Corsi dal mio vicino di casa Tom e suonai il campanello. Nulla. Dalla porta finestra sul retro vidi che nessuno era in casa ma la porta era chiusa dall’interno. Tutto sembrava non essere stato mosso, solamente un foglio a terra catturò la mia attenzione ma non riuscii e leggerne il contenuto.
Fu la prima volta che mi sentii così solo, triste ed impotente, incatenato. Corsi con le lacrime agli occhi per non so quanti chilometri, tutto sembrava ripetersi come un fotogramma inceppato; case immobili, pesanti automobili affondate nell’asfalto ed il silenzio ad accompagnarne i pensieri.
Capire per quale motivo una intera cittadina fosse sparita di punto in bianco, solo nella lucida interpretazione di un poeta poteva risultare affascinante, segno indelebile di una città unica, ma agli occhi di un mezzo giornalista come me risultò davvero inquietante e tutt’ora mi spaventa.
Tornai a casa in uno stato di instabile pazzia e cercai nella quotidianità casalinga una sorta di calore. Non chiamai nessuno, non cercai nessuno di K o di qualsiasi altro paese; non volevo sapere se il nulla avesse violato le vite di tutto il mondo o solamente la mia città. Ero paralizzato. Presi la mia bottiglia di Aberlour e cercai di non pensare a nulla, proprio come quando mio padre se ne andò. Non so il motivo dello strano collegamento ma iniziai a pensare a lui. Mi mancava e mi mancavano i suoi discorsi; sapeva sempre tranquillizzarmi. Non parlava molto ma le sue parole non erano mai scontate, non aveva bisogno di apparire, aveva una sua tranquillità interiore che lo rendeva speciale. Era il modello di persona che avrei voluto diventare.
Non ricordo quanto tempo passai a terra in totale apatia a fissare le bottiglie sempre più numerose riflettere timidamente il mio volto perso, ricordo solamente il sogno che mi diede la forza di reagire e di trovare una chiave di lettura a quell’incubo. E di questo devo ringraziare ancora una volta il mio vecchio padre. Era nel suo studio e stava incidendo qualcosa sul fondo di uno dei tanti violoncelli; mi avvicinai ma lui non riusciva a vedermi, aveva gli occhi tristi e i suoi occhi si riempivano di malinconia ogni volta che guardava la mia foto. Probabilmente ero morto nel sogno. “Avrei voluto essere un padre migliore”, questo aveva inciso nel legno. Mi svegliai. Per quale motivo avrebbe voluto essere un padre migliore? Quale ragione l’avrebbe spinto a mandarmi un messaggio del genere? Fu allora che mi alzai di scatto e corsi nuovamente dal mio vicino. C’era forse qualche messaggio su quel foglio a terra? Con un grosso sasso spaccai il vetro della porta finestra. Entrai e tutto sembrava perfettamente al suo posto: fotografie, libri appoggiati sul tavolo in sala, il telecomando riposto nel solito vano. Tutto era al suo posto eccetto Tom. Raccolsi il foglio a terra e lessi “nessuna pagina mi ha mai regalato la vita”. Allora capii.
Corsi fuori ed entrai allo stesso modo nella casa della signora accanto, non ricordo il suo nome perché era una persona molto riservata, ma sapevo essere una bravissima compositrice: “avrei voluto trovare le note perfette” era il suo messaggio.
Non so per quale motivo ma ogni sognatore aveva abbandonato la propria abitazione lasciando solamente un messaggio del suo più grande rimpianto. Li raccolsi uno ad uno custodendoli nella mia piccola borsa da viaggiatore. Ogni messaggio era l’ultima traccia di una persona speciale, una stella in meno da ammirare in un cielo sempre più nero, come luci lasciate morire nella più lunga e fredda notte d’inverno.

Allora trovai un senso. Scrivere le storie di tutte queste piccole meraviglie perché nessuno possa dimenticare il significato dei sogni e delle emozioni che solo loro hanno saputo regalare ed un giorno chissà poter rivedere la vita a K, magari un giorno, quando riusciremo a meritarcelo nuovamente.
Trovai il posto perfetto dove scrivere: una gigantesca opera creata da uno dei primi abitanti di K, l’architetto a cui la città deve tutta la sua bellezza grazie ai suoi progetti di innovativa poesia visiva. Era apparentemente una parete di cristallo ma la sua vera forma si riusciva a intravedere solo allontanandosi per chilometri e chilometri, un libro aperto dalle pagine ancora intonse che solo chi era fuori città poteva ammirare. Situata al centro della città rappresentava il simbolo del paese. Così il primo mattone di K divenne anche il suo epitaffio. Il cerchio stava per chiudersi. Presi allora il filo lasciato a terra, spezzato, lo legai al mio, ed iniziai così dall’unica persona al mondo a cui potessi dedicare un inizio: mio padre… 

inThoughts#2 – F. M. Gri

Sono passati molti anni da quando il suono è diventato la mia passione e sono sempre più convinto della potenza terapeutica che esso può avere.

Se da un lato imparare a suonare uno strumento può migliorare molti aspetti di una persona, affinando la sua sensibilità, iniziandolo alla pratica dell’autodisciplina e allontanandolo dai futili passatempi dei tempi moderni da un altro punto di vista può incastrarlo in un circolo vizioso di ego da cui difficilmente potrà districarsi.

Il mercato della musica si forgia in un susseguirsi di processi produttivi che ricordano molto le catene di montaggio di una industria: si crea un brano, poi un album, poi si cerca un’etichetta e infine si produce fisicamente il lavoro e lo si promuove. A seconda del genere questo processo coinvolge un numero di persone proporzionali alle entrate economiche che può portare l’album in questione. Detto così tutto sembra molto meno poetico di quello che si può immaginare, ma in realtà il prodotto artistico e l’arte come pura forma d’espressione dell’anima sono due cose ben distinte e non bisogna confonderli. Percorrendo la strada dell’ego il musicista che aveva imparato a suonare uno strumento perchè la sua anima gli aveva “parlato”, si troverà in breve tempo a produrre un album meccanicamente senza sentirne veramente l’esigenza diventando così una pulsione esterna e non più un’esigenza interiore. E non appena la pulsione diventa padrona di questo meccanismo l’artista si vestirà di una maschera narcisista da cui difficilmente riuscirà a farne a meno. Più l’ego cresce e meno l’anima ha lo spazio per esprimersi e di conseguenza la qualità dell’arte cala…è inevitabile. Bisognerebbe rallentare, fermarsi un attimo e chiedersi: perchè lo sto facendo? E se la riposta è “perchè voglio diventare qualcuno” oppure “voglio essere il migliore” o “voglio essere ricordato” allora siamo davvero sui binari sbagliati.

Nel suono c’è molto più di tutto questo, qualcosa di più intimo e potente che non solo ci può far star bene, ma può anche curare la nostra anima accordandola proprio come un vero e proprio strumento. Il nostro corpo emana vibrazioni esattamente come tutto quello che ci circonda. In un certo modo quando suoniamo uno strumento non facciamo altro che creare una connessione con la vibrazione che in quel momento c’è nell’aria, positiva o negativa che sia. Chi fa musica ha una capacità più o meno sviluppata di trasformare in suono le vibrazioni che ci sono in quel determinato istante proprio come lo scultore è in grado di vedere cosa c’è dentro un blocco di pietra. Se c’è energia negativa e pesante molto probabilmente nascerà una musica triste e sofferta mentre se l’energia è positiva si troveranno note di pace e serenità. Il suono nasce da dentro di noi ma sono anche propenso a credere che quando creiamo con l’entusiasmo di un bambino si aprono canali che possono davvero sorprendere e in quel determinato stato di coscienza temporaneo possono nascere cose meravigliose. In quei frangenti l’artista non è solo, ma si fa carico di un’energia universale che poi regalerà a chi ne ha bisogno. Quante volte una musica, un libro, un quadro hanno cambiato la vita alle persone? Dare e ricevere incondizionatamente credo sia la forma più pura dell’arte, un’ambizione sincera senza secondi fini a cui tutti noi dovremmo ambire…

inThoughts#1 – Roberto Galati

Mi piacerebbe molto coinvolgere gli artisti che hanno collaborato con Krysalisound condividendo anche i loro pensieri e la loro arte nella lingua che preferiscono, senza barriere e freni. Conoscere il lato umano di un musicista è sempre più difficile in un mondo bombardato ogni giorno di nuova musica”.

Ho sinceramente apprezzato questo messaggio che ho ricevuto da Francis, mente e anima di Krysalisound.

Ho sempre cercato di abbinare musica, parole, e immagini. 

La musica scaturisce da qualcosa che ci emoziona e per alcune persone è quasi fisico il bisogno di esprimere queste emozioni. Ma quali sono? cosa ci spinge a esprimerle? quale vissuto c’è dietro a queste emozioni?

Nel mio caso è da circa dieci anni che in un mio blog esprimo con le parole ciò che in passato comunicavo solo attraverso i suoni. Attraverso le storie che scrivo, i luoghi che vedo, rifletto su aspetti della mia vita che forse non avrei considerato, o non mi sarei fermato a considerarli nel modo giusto. 

Lo scrivere mi aiuta a capire, ma è forse espressione del mio lato più razionale.

E’ con la musica che probabilmente mi sento più libero. Ciò che faccio con i suoni non è una riproduzione della realtà, una sua semplice descrizione. Sto provando a eliminare la distanza tra me e ciò che mi circonda; e far perdere me stesso nei luoghi che osservo.

Quando scrivo mi servo spesso di espressioni come ‘maestoso’, ‘grandioso’, ‘immenso’ per descrivere le emozioni che i paesaggi mi trasmettono. Do spazio al sentimento estetico, più sensazionalistico. Con la musica forse mi avvicino invece di più al mondo dell’inconscio; e forse inconsapevolmente è proprio attraverso la musica che desidero arrivare alla perdita del sé e all’identificazione nella natura, nel tutto.

Sono parole forse un po’ troppo importanti, ma riflettono un desiderio – difficile da raggiungere – che continuo a perseguire. 

Al rientro da uno dei miei viaggi avevo scritto questa frase:

“Quell’immensità ha continuato a vivere nei miei gesti, nelle mie azioni, nei miei pensieri, nelle mie parole. Si è lentamente depositata, si è posata in profondità, si è stemperata insieme ai diversi ingredienti della mia coscienza. Riemergendo e manifestandosi nel corso dei mesi successivi al viaggio quell’immensità mi ha rinnovato e rinvigorito; mi ha restituito l’immaginazione, l’ispirazione e la fantasia che col tempo si erano scolorite e indebolite. 

E’ diventata una necessità, un’attrazione irresistibile, per un intero anno ho vissuto di quell’immensità, l’ho rievocata instancabilmente con le parole, con la musica e con i pensieri. E’ seducente e richiama a se, e non so e non posso sottrarmi a essa, è puro magnetismo. 

Ho visto l’essenza della natura, senza interferenze; ciò che sono abituato a vedere tutti i giorni è una natura contraffatta, falsificata, alterata dall’uomo”. 

Mi piace osservare la maestosità della natura, percepire la sua enormità, la sua imponenza.

Sono alla ricerca di un rapporto profondo con il tempo e lo spazio. Non il tempo ricondotto al presente, concepito per soddisfare i bisogni effimeri del momento, ma il tempo lungo, necessario, quello in sintonia con le leggi congenite di questo mondo.

Questo sono io, o una parte di me.

Ci sono quei momenti che mentre li vivi hai la netta sensazione della loro unicità; sai che il loro ricordo prenderà un posto più alto rispetto agli altri, che emergerà in altre esperienze di vita.

Ho scelto alcuni brevi estratti dai miei racconti; sono descrizioni di alcuni di questi luoghi per me preziosi.

“L’isola di Uunartoq è una fuga da tutto. Qui non c’è spazio per scure riflessioni, non c’è un passato, un presente, un futuro. Il tempo si ferma. La sua piccola vasca di acqua termale è la porta per accedere al verde di questa terra, al suono degli iceberg che si sciolgono placidamente in acqua, all’alba sulle montagne innevate, alla natura nella sua accezione più ampia. 

E’ un luogo atipico anche la piccola casa gialla della famiglia inuit che cucina per me. Una carezza, un conforto che dona serenità. Realizzo di trovarmi in uno spazio senza tempo, lontano da tutto e vicino all’essenza delle cose. L’amore di una nonna, il sorriso di una bambina, una cena calda, l’ospitalità di un vecchio marinaio, il calore di una casa. Piccole cose, forse, ma vitali. E finalmente capisco: questa è l’essenza dell’isola. E’ sorprendente. C’è più umanità qui che altrove. E’ come se la natura imperante, apparentemente inospitale, avesse cristallizzato e preservato le cose semplici, innocenti, pure. Mi ritrovo meravigliosamente bambino. 

Le sobrie ed essenziali croci bianche all’interno di un recinto appena abbozzato, che incornicia il cimitero, evocano morigeratamente il senso della vita, il ritorno alla terra”. 

“La vegetazione affiora abbondante dalla superficie del lago. Orchidee e case sulle palafitte galleggiano leggere e non ne percepisco lo spessore e la loro profondità. L’impressione è che tutto sia abbozzato, o che sia confluito in un disegno tenue e inconsistente, aeriforme, un dipinto trasparente che descrive il movimento incorporeo e rallentato di un getto di vapore. Non si distingue quasi il limite del lago, che sfuma indefinito verso riva. Mercanti di frutta, di verdure e di fiori trasportano i loro prodotti sulle shikara. Un vociare rilassato annuncia l’avvicinarsi del mercato, fluttuante sull’acqua; in questo posto nulla si posa sulla terra. I mercanti barattano le proprie merci da una barca all’altra. 

Fronde di salici che cadono e si muovono nell’acqua, orti che galleggiano su terreni sospesi che sembrano barene, e riflessi di molteplici gradazioni di verde sono ulteriori elementi che caratterizzano questo luogo. Così come orchidee e fiori di loto che convivono in una inedita combinazione insieme ad abitazioni incurvate e a moschee galleggianti. Traggo beneficio da questo ambiente dall’atmosfera rarefatta e sognante, risvegliato del calore tenue delle prime luci del giorno. Me ne servo in abbondanza, per sentirmi vivo; assorbo, faccio scorta per il futuro. Lentamente, forse a malincuore per il timore di interrompere questo particolare momento, mi risveglio pure io e torno a terra”. 

“La vista si perde in una infinità di ghiacciai, appoggiati sulle cime dei rilievi; in una successione di macchie di colore che emergono dalle lastre bianche e che scendono a valle; nell’avvicendarsi di lunghe striature, verdi e marroni, lunghe pennellate diagonali date con impareggiabile maestria. E’ un paesaggio che si rincorre. Giro lo sguardo e cerco di catturarlo, ma è una successione di colori, tutto attorno a me, da far girare la testa. Mi trovo in un enorme spazio delimitato da alti rilievi che sembrano dipinti. Questa immensa valle sembra un luogo sacro. La sua essenza è contenuta nel monastero di Rangdum, appoggiato su un colle, che pare affiorare dalla vastità in cui è immerso. […] Poco distante dal monastero mi sdraio sul prato, costellato di stelle alpine e osservo i rilievi innevati che mi circondano. Sarà questo il mio letto questa notte; un cielo stellato a 3900 metri di altitudine. Sorrido e guardo le stelle cadenti, continue luci nel cielo. Mi accendo, mi sento vivo, e recupero il senso del mio lungo viaggio.”

“Osservo un’aquila che vola in cielo. La percezione che gli animali hanno del paesaggio non possiamo conoscerla; probabilmente per essi esiste solo un serie di riferimenti funzionali entro un territorio vitale. Come vedono il mondo possiamo saperlo soltanto prestando loro i nostri sensi e il nostro sentimento. Voglio ridiscendere dalle cime e osservare con i suoi occhi il tratto di strada che porta a Leh, voglio riaprire così gli occhi sul mondo. Voglio vedere me stesso, da lontano, salire sull’aereo per Nuova Delhi, e tornare poi a posare lo sguardo sulle alte vette dell’Himalaya.

Volo sopra un arco di terre limitato da catene montuose e verso l’interno da terre desertiche. Posso arrivare ad abbracciare con lo sguardo per intero questo panorama, sino a 400 km di distanza e oltre. Sento il freddo pungente dell’aria sul mio nuovo corpo. Lo spazio è esteso e non ci sono confini definiti intorno al paesaggio che conosco. La vista funziona da memoria e da riferimento delle altre percezioni, insostituibile per la percezione che ho dello spazio. Sui pendii innevati vedo orme di piccoli mammiferi, potrei seguirle per sapere dove sono, dove si nascondono, per cacciare. Proseguo e oltrepasso il limite della mia esperienza geografica di questo luogo; entro in un mondo inesplorato, mi sento invulnerabile, veloce nel volo e rapido nei movimenti. 

Sulla dorsale più alta che cinge una valle c’è un piccolo villaggio con le sue case tutte distese al sole lungo il versante che guarda a mezzogiorno. Il fondovalle è percorso da un grande fiume. E poi gli uomini, piccoli cortei di gente in prossimità di una città. Ero uno di loro pure io, un tempo. Ma avevo dimenticato l’essenza delle cose, il loro spettacolo perenne. La magia del mondo. Non sento vita spirituale adesso, assaporo il momento, l’attimo in cui vivo. Sento il cuore che pulsa. Non c’è razionale o irrazionale, c’è solo un libero abbandono a ciò che vedo, a ciò che sento. Eterni sono i miei movimenti, eterno questo attimo in cui batto le ali, eterno il mio atto di respirare. Ecco, qui c’è il «vivo».”

Ringrazio infinitamente Francis per avere deciso di dedicare questo spazio ai pensieri di chi fa parte del mondo Krysalisound.

Roberto